Domenica 15 dicembre, III Domenica di Avvento, abbiamo avuto l’onore di ospitare il Card. Mario Grech, Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi, che ha celebrato la Santa Messa delle ore 10:30.
Con gioia condividiamo, per coloro che non hanno potuto essere presenti, il testo della sua intensa e toccante Omelia.
Omelia nella III Domenica di Avvento
15 dicembre 2024
Cari Membri della Comunità Agostiniana di Santo Spirito,
Cari fratelli e sorelle,
con grande gioia ho accolto l’invito a presiedere questa Liturgia eucaristica nella III Documento di Avvento. La gioia è accresciuta dal fatto che, da tempo immemorabile, quella che celebriamo è proprio la Domenica Gaudete, nella quale è la stessa liturgia a rivolgerci un invito alla gioia, e questo perché il Signore Gesù, come abbiamo appena ascoltato nella Seconda Lettura, «è vicino» (Fil 4,4).
Questa celebrazione, come sapete, vuole essere il momento conclusivo di un fitto calendario di appuntamenti, inseparabilmente spirituali e culturali, raccolti sotto il titolo: Il carisma agostiniano. I conventi: centri di spiritualità, religiosità e cultura. Attraverso un ricco percorso fatto di storia, arte e musica, l’obiettivo è stato quello di mostrare che lungo i secoli l’Ordine agostiniano si è fatto promotore di fede e di cultura in questo territorio, e che questa sua missione non è affatto esaurita. Il mio augurio è che, anche nel mutato contesto storico in cui ci troviamo a vivere, questo convento continui a essere polo di irradiazione di bellezza spirituale, intercettando soprattutto le nuove generazioni: queste ultime, infatti, portano nel loro cuore un profondo desiderio di conoscenza, di luce e di gioia, che tuttavia non sempre è adeguatamente intercettato dagli adulti.
Le letture che sono state proclamate incoraggiano queste prospettive. Ci dicono, anzitutto, che la vita cristiana non è solo un sapere, un pensare, un sentire, ma anche e irrinunciabilmente un “fare”. La multiforme operosità dell’Ordine agostiniano, qui e in tanti altri luoghi dell’Italia e del mondo, ne è, del resto, la chiara riprova. San Giovanni Battista, che è il protagonista dell’odierna pericope evangelica, viene incalzato da un’unica domanda che gli viene rivolta per tre volte, rispettivamente dalle folle, dai pubblicani e dai soldati: «Che cosa dobbiamo fare?». Possiamo oggi fare nostra quella domanda e completarla in questo modo: «Che cosa dobbiamo fare per vivere il Vangelo?», «Che cosa dobbiamo fare per essere cristiani oggi?», «Che cosa dobbiamo fare per essere all’altezza di ciò che il Signore domanda alla Chiesa del nostro tempo?».
Le risposte del Battista non sono risposte passe-partout, valide cioè per tutti indistintamente, come se fossero “preconfezionate”. Esse, piuttosto, sono risposte commisurate alla condizione concreta delle persone che si rivolgono a lui: nel caso della gente comune egli invita alla condivisione del cibo e del vestiario, nel caso dei pubblicani all’onestà nel lavoro di raccolta dei tributi, nel caso dei soldati alla mitezza e all’integrità nell’esercizio delle funzioni militari. In altre parole, la risposta a quella domanda cruciale non può essere uguale sempre e dovunque, ma va contestualizzata qui e ora. Non si può rispondere oggi come avremmo risposto un secolo fa, né può esservi risposta che valga allo stesso modo qui in Italia e in un altro remoto paese del mondo.
Mi viene da pensare che il percorso sinodale 2021-2024, che ha da poco vissuto il suo momento culminante con la celebrazione dell’Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi e la pubblicazione di un Documento Finale espressamente approvato dal Santo Padre, è stato in fondo animato dalla volontà di trovare una risposta a quella domanda, una risposta che fosse adatta ai cristiani e alle cristiane di questo nostro tempo. Tale risposta si è condensata nella cifra della “sinodalità”, in quanto – come Papa Francesco ci aveva detto già nel 2015 – «proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio» (Discorso per il 50° del Sinodo dei Vescovi, 17 ottobre 2015).
Questa parola inizialmente sconosciuta a molti, “sinodalità”, è stata precisata lungo il cammino dai tre termini comunione, partecipazione e missione. Che cosa, dunque, dobbiamo fare per diventare la Chiesa sinodale che il Signore ci chiama ad essere? Dobbiamo vivere di più la comunione tra noi, sul modello della Santissima Trinità, mistero ineffabile di comunione d’amore. Dobbiamo fare più esperienza di partecipazione, rendendo tutti i battezzati, semplicemente in quanto battezzati, soggetti attivi nei luoghi dove la Chiesa progetta il suo cammino, superando in tal modo una mentalità clericalista che considera i fedeli laici passivi destinatari di iniziative prese più in alto. Dobbiamo, infine, protenderci di più alla missione, perché la Chiesa è se stessa solo al di fuori di se stessa, chiamata quale è a essere sacramento di salvezza per il mondo intero, in particolare per i poveri, gli ultimi, i discriminati, i lontani, i senza speranza.
Il Documento Finale del Sinodo, che raccoglie i frutti maturi del lungo percorso compiuto, restituendoli a tutte le comunità ecclesiali per favorirne la recezione all’interno del Popolo di Dio, è in un certo senso un “prontuario” che può ben aiutarci a rispondere alla domanda rivolta a Giovanni Battista oltre duemila anni fa: «Che cosa dobbiamo fare?». Nonostante il testo offra un puntuale approfondimento teologico delle questioni trattate, esso non diventa mai un libro di alta teologia per “addetti ai lavori”, ma si mostra sempre attento a indicare sentieri concreti per l’attuazione delle proposte sinodali. Per questo motivo, desidero raccomandarne vivamente la lettura anche a voi, chiedendovi di farvi promotori della sua diffusione all’interno delle vostre comunità diocesane, parrocchiali e religiose.
Non mancano neppure, in quel documento, validi spunti per il rinnovamento della vita consacrata, spunti che in tal senso possono rivelarsi preziosi anche per voi che vi sforzate di vivere il carisma agostiniano. A questo proposito, desidero rileggere con voi una parte del n. 65 del Documento Finale, che rilancia con forza la missione dei consacrati e delle consacrate, invitandoli a vivere con rinnovato entusiasmo le pratiche di sinodalità ecclesiale e di discernimento comunitario iscritte nei loro carismi fondativi, per poter essere ancor più, nel nostro tempo, profeti di comunione, partecipazione e missione:
Nel corso dei secoli, i doni spirituali hanno dato origine anche a varie espressioni di vita consacrata. Fin dagli albori la Chiesa ha riconosciuto l’azione dello Spirito nella vita di quegli uomini e donne che hanno scelto di seguire Cristo sulla via dei consigli evangelici, consacrandosi al servizio di Dio tanto nella contemplazione quanto in molteplici forme di servizio. La vita consacrata è chiamata a interpellare la Chiesa e la società con la propria voce profetica. Nella loro secolare esperienza, le famiglie religiose hanno maturato sperimentate pratiche di vita sinodale e di discernimento comunitario, imparando ad armonizzare i doni individuali e la missione comune. Ordini e Congregazioni, Società di vita apostolica, Istituti secolari, come pure Associazioni, Movimenti e Nuove Comunità hanno uno speciale apporto da dare alla crescita della sinodalità nella Chiesa.
Di fronte a una sfida tanto grande, in un tempo così difficile come quello che ci è dato di vivere, potremmo sentirci scoraggiati e demotivati. È l’esperienza che, nel Primo Testamento, fa molte volte anche il popolo di Israele di fronte ai tanti travagli del suo cammino storico, travagli che ultimamente hanno la loro radice nell’infedeltà all’Alleanza stabilita con Dio. Possiamo oggi sentire rivolte anche a noi le parole di incoraggiamento e di speranza che il profeta Sofonia indirizza al suo popolo: «Rallègrati, figlia di Sion, grida di gioia, […], Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore» (3,14.17-18). In questa Domenica della gioia, parole di consolazione e di fiducia ci giungono pure dalle strofe del Salmo responsoriale, tratto da una luminosa pagina del profeta Isaia: «Ecco, Dio è la mia salvezza; io avrò fiducia, non avrò timore, perché mia forza e mio canto è il Signore; egli è stato la mia salvezza» (12,2). Pure San Paolo, esorta i cristiani di Filippi, angustiati per le prove della vita e per le persecuzioni della fede: «Fratelli, siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. […] Il Signore è vicino!» (4,4).
Anche il Documento Finale del Sinodo, che significativamente ha scelto come icona biblica l’apparizione del Risorto ai discepoli nel cenacolo la sera di Pasqua, contiene ripetuti inviti alla gioia, al coraggio e alla speranza. In questo modo, il processo sinodale ha rappresentato una preparazione e quasi un’anticipazione del Giubileo del 2025, ormai alle porte, Giubileo che il Santo Padre ha voluto dedicare proprio alla speranza.
La speranza cristiana non si fonda su ragioni umane. Oggi, umanamente parlando, avremmo ben pochi motivi di speranza, di fronte al moltiplicarsi e al rincrudirsi delle guerre, agli sconvolgimenti climatici, all’allargamento degli squilibri sociali e all’emergenza migratoria. La speranza cristiana, quale virtù teologale, è piuttosto sostenuta dalle altre due virtù della fede e della carità, con cui procede di pari passo. Il cristiano spera, nonostante tutto e tutti, perché nella fede sa che le sorti della storia, universale e individuale, sono nelle mani di Dio, il quale può sempre misteriosamente volgere al bene il loro corso malgrado i disastri umani. Al tempo stesso, il cristiano spera, nonostante tutto e tutti, perché l’amore, che lo Spirito Santo ha riversato nel suo cuore, lo rende capace qui e ora di trasformare in meglio il mondo che lo circonda, anticipando con la sua carità fattiva il futuro compimento del Regno di Dio.
Questo vale anche per le comunità religiose. Queste comunità, che hanno una tradizione sinodale, sono chiamate ad essere “sentinelle della speranza”. Essere sentinelle significa assumere il ruolo di custodi del “benvivere” e della dignità degli altri, attraverso l’arte dell’ascolto e dell’accompagnamento di chi si trova in situazioni di sofferenza. In questo contesto il tema del vostro Convegno “Il carisma agostiniano. I conventi: centri di spiritualità, religiosità e cultura” è una tema azzeccato. Considerando che «senza significato non c’è tempo» (Thomas S. Eliot), la vita religiosa ha il compito di ricordare a tutti con la stessa forma della vita che esiste un significato ultimo al tempo che scorre: è Gesù risorto, vincitore sul nulla e sulla morte. Questo è il motivo perchè è auspicabile che la presenza dei conventi andrebbe sostenuta e rafforzata.
Carissimi fratelli e sorelle in Cristo, stimolati da questa liturgia domenicale, che abbiamo voluto rileggere alla luce del recente percorso sinodale 2021-2024, proiettandoci da ultimo all’Anno Santo imminente, riempia il nostro cuore di luce, di pace e di speranza, permettendo a ciascuno di noi – e soprattutto a quanti fra noi sono più provati dalla vita, per ragioni di famiglia, di lavoro e di salute – di arrivare «a celebrare con rinnovata esultanza – così abbiamo proclamato nella preghiera di colletta – il grande mistero della salvezza» nelle prossime festività natalizie. Amen.
Mario Card. Grech